Le Ali Morali | Un paese dove la virtù deve chiedere Perdono
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22 Giu Un paese dove la virtù deve chiedere Perdono

Condividiamo l’articolo del teologo Vito Mancuso pubblicato dal quotidiano “La Repubblica”.

In sintesi:
“È un clamoroso falso che la cattiveria e l’immoralità siano più produttivi e più appaganti del bene e della giustizia. Che non lo siano lo dimostrano gli stati nei quali è più bassa la corruzione (Danimarca, Norvegia e in genere i paesi del nord Europa) e nei quali corrispettivamente è più alto il tasso di benessere sociale e individuale.

Il nostro è un paese di individui che si credono furbi perché trasgrediscono le regole dell’ordine etico e civico, ma che in realtà sono semplicemente ignoranti perché tale continua trasgressione produce il caos quotidiano dentro cui siamo costretti a vivere, fatto di approssimazione, diffidenza, nervosismo, disattenzione, e tasse elevatissime cui corrispondono servizi spesso ben poco elevati. Intendo dire che rispettare le regole, comprese quelle che riguardano la vita privata (perché chi non è fedele nel privato non lo sarà certo nel pubblico) è la modalità migliore di raggiungere quel poco o tanto di felicità che la vita può dare”.

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I fatti di Firenze riportati ieri da questo giornale (“Assessori, escort e coop, i segreti hard di Firenze”) non sono certo un caso isolato nel nostro paese, anzi sono convinto, e con me penso lo sia la gran parte degli italiani, che ogni nostra città o cittadina presenti una realtà più o meno analoga. Si tratta di una constatazione abbastanza inquietante, almeno per me che sono spesso chiamato a parlare di etica. Ne ho parlato l’altro giorno in una tavola rotonda promossa da Conad in occasione dell’assemblea di bilancio, all’inizio di questo mese ho tenuto uno specifico corso di etica ai futuri commissari presso la Scuola Superiore di Polizia, molte volte sono stato invitato a discuterne nei licei del nostro paese, nelle aule universitarie, nelle piazze che ospitano manifestazioni culturali. Ricordo una volta a Roma nell’aula magna della Luiss, l’Università della Confindustria, di aver dovuto rispondere alla domanda sul perché il bene dovrebbe essere sempre meglio del male se il male talora risulta più efficace, sul perché si dovrebbe essere onesti e leali anche quando è possibile non esserlo, e non esserlo risulta più conveniente. Devo dire che ogni volta, prima di prendere la parola, ho sentito sorgere dentro di me una sorta di sottile disagio, procurato dal fatto di percepire sui volti che mi osservavano il disinteresse e la noia per quell’argomento di cui stavo per parlare.

Anche per questo cito qui a mia discolpa una frase di Shakespeare: “Perdonatemi questa predica di virtù, perché nella rilassatezza di questi tempi bolsi la virtù stessa deve chiedere perdono al vizio, sì, deve inchinarsi a strisciare” (Amleto 3,4). “Buonista” si usa dire, cioè poco capace di incidere sulla realtà effettiva delle cose. Gli allenatori delle squadre di calcio quando mandano in campo i calciatori dicono che li vogliono “cattivi” oppure “cinici”, il che per loro significa efficaci. Non fanno che esprimere il pensiero dominante: chi è cattivo vince, chi è buono no. Come nello sport, così nella vita: chi è cattivo riesce, chi è buono no. Questo è il pensiero che abita la mente occidentale da qualche secolo a questa parte e che ha trovato la sua consacrazione teoretica nel pensiero di Friedrich Nietzsche, il filosofo preferito da Mussolini e Hitler (in un discorso alla Camera del 26 maggio 1934 il Duce si dichiarò “discepolo di Federico Nietzsche polacco germanico”, mentre il Führer si recò in visita più volte all’archivio del filosofo, gestito, e strumentalizzato, dalla sorella Elisabeth). La cosa curiosa, e per me preoccupante, è che l’interpretazione maggioritaria di Darwin vede l’uomo e la natura esattamente nella medesima prospettiva che fa della forza e della furbizia l’arma migliore per vivere, per cui oggi anche da sinistra (dove il darwinismo ha ormai sostituito il marxismo quale orizzonte teoretico) si tende a pensare l’uomo e la vita in questa prospettiva spietata e rapace.

Mi rendo perfettamente conto che queste affermazioni filosofiche andrebbero più adeguatamente argomentate, ma qui mi posso solo limitare a dichiarare che in me non suscita alcuna meraviglia il fatto che alcuni funzionari delle nostre istituzioni possano abusare della loro funzione per soddisfare appetiti sessuali, in qualche caso addirittura con i soldi pubblici: il nostro comportamento infatti discende dalla nostra mente, e la mente è guidata per lo più istintivamente dalla gerarchia esistenziale in base a cui è configurata, per cui se non c’è nulla di più rilevante della propria volontà di potenza, e se non si può arrivare alle vette letterarie e filosofiche di Nietzsche, è logico che ci si avventi su orizzonti più caserecci. Il problema quindi non è l’immoralità pratica, che sempre ha accompagnato il fenomeno umano e sempre l’accompagnerà, ma è la debolezza del sentire etico che fonda la differenza tra moralità e immoralità sostenendo che la prima sia spesso meglio della seconda. Gli uomini hanno sempre praticato delle trasgressioni a livello etico, ma un tempo quando si era immorali ci si sentiva fuori posto (peccatori nella versione cattolica, inadempienti agli obblighi della coscienza nella versione laica), oggi si è immorali e ci si sente furbi e vincenti. E la cosa vale tanto per chi si dice cattolico quanto per chi si dice laico. Il problema, in altri termini, è la mancanza di fondamento dell’etica.

Torna la domanda che mi è stata posta da uno studente: perché il bene dovrebbe essere meglio del male, se il male talora risulta più efficace? Io penso che a questa domanda si possa rispondere solo andando ad appoggiarsi al fondamento ultimo dell’etica, e penso altresì che tale fondamento abbia molto a che fare con la fisica, con la natura intima della realtà. È infatti un clamoroso falso che la cattiveria e l’immoralità siano più produttivi e più appaganti del bene e della giustizia. Che non lo siano lo dimostrano gli stati nei quali è più bassa la corruzione (Danimarca, Norvegia e in genere i paesi del nord Europa) e nei quali corrispettivamente è più alto il tasso di benessere sociale e individuale. L’etica infatti non fa che esprimere a livello interpersonale la logica della relazione armoniosa che abita l’organismo a livello fisico e che lo fa essere in salute, l’armonia tra le componenti subatomiche che compongono gli atomi, tra gli atomi che compongono le molecole, e così sempre più su, passando per cellule, tessuti, organi, sistemi, fino all’insieme dell’organismo. Lo stesso vale per la vita psichica, tanto più sana quanto più alimentata da relazioni armoniose, in famiglia, a scuola, al lavoro, e viceversa tanto più malata quanto più esposta, magari fin da piccoli, a relazioni disarmoniche e violente. Il segreto della vita in tutte le sue dimensioni è l’equilibrio, e l’etica non è altro che l’equilibrio esercitato tra persone responsabili.

Il nostro è un paese di individui che si credono furbi perché trasgrediscono le regole dell’ordine etico e civico, ma che in realtà sono semplicemente ignoranti perché tale continua trasgressione produce il caos quotidiano dentro cui siamo costretti a vivere, fatto di approssimazione, diffidenza, nervosismo, disattenzione, e tasse elevatissime cui corrispondono servizi spesso ben poco elevati. Intendo dire che rispettare le regole, comprese quelle che riguardano la vita privata (perché chi non è fedele nel privato non lo sarà certo nel pubblico) è la modalità migliore di raggiungere quel poco o tanto di felicità che la vita può dare.

Qualche giorno fa pagando il conto in una pizzeria di Roma il cassiere mi diede dieci euro in più. Gli dissi che stava sbagliando e guardandolo potei avvertire nei suoi occhi il passaggio da uno sguardo di minacciosa difesa a una luce particolare. Finì che offrì a me e a chi era con me una grappa per festeggiare. Che cosa? I dieci euro recuperati? Credo qualcosa di più.

Vito Mancuso, la Repubblica 21 giugno 2013